Ultimo aggiornamento:  14 Aprile 2019 8:41

Le tre major carpigiane

Le cause della crisi del distretto carpigiano. La situazione delle tre maggiori aziende

Il distretto tessile di Carpi ha archiviato un 2018 non certo memorabile per l’andamento complessivo di quella, che una volta era definita la capitale della maglieria. Il panorama mostra molti segnali di difficoltà e qualche luce, non certo alimentata dai dati del mercato interno, che ancora una volta si mostra in flessione. Non solo. Come accennato anche nel Rapporto Unioncamere Emilia-Romagna presentato nel dicembre scorso, mentre nel suo complesso in regione c’è stato ancora una crescita della produzione e dell’ occupazione, per l’ industria della moda il trend si è invertito, mostrando un segno negativo.

Parlando con gli imprenditori del settore, si richiama sempre l’effetto perverso della globalizzazione, che ha reso via via meno importante il valore del Made in Italy. In realtà lo smantellamento dell’Accordo Multifibre, avvenuto tra 1995 e 2004, ha aperto le vie dell’ importazione con la scomparsa quasi totale di quote e di dazi doganali dai paesi extracomunitari. Benchè a Carpi non mancassero già alla fine degli anni Ottanta imprese specializzate nell’ importazione di capi finiti di abbigliamento, l’imprenditoria locale, soprattutto per la sua parte di artigiani e di imprese minori, si è trovata in gran parte spiazzata davanti ad un mercato, che ha plasticamente realizzato l’effetto clessidra, ampiamente segnalato a suo tempo nelle sale del Citer, il centro servizi per l’ informazione tessile, promosso dalla Regione all’inizio degli anni Ottanta. La clessidra non altro che l’ immagine della contrazione del segmento medio del mercato, che si è andato restringendo brutalmente, mentre la fascia del prodotto di lusso  e quella del prezzo  iper-competitivo si è allargata in maniera consistente. Basti vedere, ad esempio, di quanto è cresciuto il fatturato di Gucci: nel 2017 aveva fatto un +45% e nel 2018 ha accresciuto i suoi ricavi del 37%, grazie ad una penetrazione tra i cosiddetti Millennials, che supera la distinzione tra vendite online e canali fisici. Di contro le grandi catene – la svedese Henness & Mauritz, con quattro marchi, di cui H&M è quello principale, e la spagnola Inditex, con Zara e le altre insegne sorelle, hanno invaso il mercato anche italiano, mettendo in grande difficoltà il dettaglio tradizionale, comprese le boutiques, un comparto, che nel Belpaese aveva sempre avuto una quota maggioritaria.

Tornando nella terra dei Pio, i signori che nel pieno del Rinascimento hanno lasciato in eredità a Carpi un castello e una piazza di autentico splendore, possiamo identificare per fare un quadro della situazione tre imprese: LiuJo, Twin-Sete Blufin. Il loro andamento è decisamente differenziato. La prima, saldamente controllata e diretta da Marco Marchi, è avanzata rispetto ai 338,5 milioni di fatturato del 2017 anche nello scorso anno, dichiarando un incremento di circa il 9% dei ricavi di gruppo con 820 dipendenti e presenta una redditività di assoluto rilievo, dopo aver dichiarato già due anni fa a IlSole 24 Ore una posizione finanziaria netta attiva di 60 milioni e un utile dopo gli ammortamenti e gli accantonamenti (l’Ebitda) superiore ai 50 milioni. Marco Marchi ha dichiarato di avere conseguito un Ebitda nel 2018 del 18%, valore assoluto  quindi in netta crescita.Notevole anche il suo rafforzamento nella quota di export, che è non inferiore al 40%. La sua rete vendite sfiora su tre continenti i 5.800 punti di vendita, di cui circa 480 monomarca e 5.300 multimarca. L’unico punto su cui l’azienda di via Fleming ha dovuto rallentare il passo è stato il progetto di quotazione in Borsa, ma soltanto perché le condizioni macroeconomiche del nostro Paese sono dominate dall’ incertezza, che ha pagato abbondantemente anche il nostro mercato azionario in termini di ribassi.  Il dato più brillante è che la maggioranza dei suoi ricavi (il 55%) LiuJo li realizza fuori dall’Italia, quando solo pochi anni fa restava al di sotto del 30%.

Tramontato per il momento l’obiettivo dell’ingresso in Borsa, la strategia punta ora su acquisizioni  di aziende nel segmento ”premium” sulla base della considerazione che il lusso si sta consolidando e quindi ci sia spazio per una fascia di mercato  a prezzi ancora abbordabili, anche se tutt’ altro che economici.

Venendo a parlare di Twin Set, l’azienda, che aveva acquisito lo stabilimento ex F.P., ristrutturandolo da cima a fondo, aveva  archiviato il 2017 con un fatturato di 235 milioni – cifra di poco superiore, secondo i bene informati, all’ esborso che il socio unico, il fondo Carlyle ha dovuto immettere nell’acquisto totale delle quote societarie dei fondatori, la stilista Simona Barbieri  e l’imprenditore Tiziano Sgarbi, il quale è ripartito  in Romagna con il Gruppo Abraham, che vanta addentellati come la Tessitura Sidoti anche in quel di Limidi di Soliera. Al momento non si dispongono di informazioni aggiornate sulla Società, che ha chiuso il 2017 con una perdita superiore ai 13 milioni di euro. Sul sito ufficiale l’ultimo comunicato risale al 6 marzo 2018, dove si riporta che “TWINSET S.p.A. annuncia che in data odierna ha completato il rimborso del prestito obbligazionario esistente senior secured a tasso variabile per €150 milioni, con scadenza nel 2019. Il rimborso del Prestito Obbligazionario Esistente è stato finanziato mediante l’emissione di un nuovo prestito obbligazionario con scadenza a sette anni, per un importo complessivo pari a €170 milioni, con scadenza nel 2025, sottoscritto da investitori qualificati e quotato presso il Terzo Mercato gestito dalla Borsa di Vienna”.

A metà dello scorso ottobre il CEO dell’impresa aveva annunciato la prossima uscita del Fondo controllato da capitali americani nel corso di un convegno a Modena. Negli ambienti della moda carpigiana si vocifera che si stia trattando la cessione della seconda azienda di moda  basata a Carpi ad un Fondo di origine cinese. Possiamo definire questa fase, quindi, come di transizione, anche dal punto di vista del fatturato 2018, segnalato dal Ceo Alessandro Variscoa  240 milioni.

Infine esaminiamo lo stato attuale del Gruppo Blufin, a cui fanno capo il glorioso marchio Blumarine e il nuovo marchio, lanciato lo scorso anno, Be Blumarine, che punta a una fascia prezzo più accessibile. L’ impresa, fondata da Anna Molinarie Gian Paolo Tarabini, coppia vincente fino all’ improvvisa accidentale morte in Africa di lui, sta attraversando un innegabile declino. Tra 2016 e 2017 il fatturato è sceso da 43 a 38,3 milioni e da un utile di 830.000 euro si è giunti a un sostanziale pareggio. Per circa un anno è stata attivata la Cassa integrazione Straordinaria, che interessa gran parte del personale. Il timone è nelle mani della seconda generazione rappresentata da Gian Guido Tarabini, il quale ha confermato a febbraio che non intende vendere anche davanti ad offerte pervenute sia dall’Impero Celeste che in maniera molto “soft” da LiuJo. Si ha la sensazione che entro fine anno il Gruppo, che con le sue numerose licenze aveva toccato alla fine degli Anni Novanta i 120 miliardi di lire, dovrà scegliere una strada, su cui indirizzare il suo futuro.

Anno quindi di svolta per molte realtà del Fashion carpigiano, mentre malauguratamente anche l’Amministrazione Comunale si è trovata ad affrontare un periodo di scombussolamento, dovuto alla nota inchiesta giudiziaria.

Giorgio Pagliani